256 secondi, piovono bombe
Spettacolo teatrale scritto e diretto da
Cesare Gallarini
"Ai bambini uccisi dalla guerra, nelle loro scuole, con i loro maestri"
con Cesare Gallarini - Lorena Marconi – Ottavio Bordone - Cecilia Vecchio
Scene: Marlis Brinkmann
Video - Audio: Gino Sacchi
256 secondi, piovono bombe è uno spettacolo teatrale che nasce da un'ispirazione durante la visita di un bunker antiaereo in Germania. Sembra impossibile che si possa vivere in un'atmosfera di prigionia forzata per scappare dalla minaccia terrificante delle bombe che arrivano dal cielo.
Eppure i bombardamenti aerei sono una costante nella storia dei conflitti e ancora oggi sono fin troppo attuali.
256 secondi, piovono bombe è un racconto grottesco fatto di spezzoni come quelli incendiari che distrussero Dresda, Tokio, Milano; un racconto fatto di frammenti come quelli dei resti di Hiroshima; un racconto fatto di schegge come quelle delle mine aeree che distrussero Londra, Amburgo; una narrazione poetica tratta dai brandelli della memoria dei protagonisti.
256 secondi era il tempo medio che impiegava un ordigno d’aereo della seconda guerra mondiale, dal momento dell'allarme alla deflagrazione. Sono stati per donne, anziani, bambini, uomini innocenti di ogni parte del mondo gli ultimi 256 secondi di vita.
Sono stati anche gli ultimi secondi di molti progetti, dei sogni, delle idee culturali, dei monumenti, delle opere d'arte e della storia. La follia umana arriva a distruggere in pochi secondi quello che il genio umano è riuscito a costruire in secoli.
...l'unico rifugio antiaereo efficace è la pace
Cesare Gallarini
"Ai bambini uccisi dalla guerra, nelle loro scuole, con i loro maestri"
con Cesare Gallarini - Lorena Marconi – Ottavio Bordone - Cecilia Vecchio
Scene: Marlis Brinkmann
Video - Audio: Gino Sacchi
256 secondi, piovono bombe è uno spettacolo teatrale che nasce da un'ispirazione durante la visita di un bunker antiaereo in Germania. Sembra impossibile che si possa vivere in un'atmosfera di prigionia forzata per scappare dalla minaccia terrificante delle bombe che arrivano dal cielo.
Eppure i bombardamenti aerei sono una costante nella storia dei conflitti e ancora oggi sono fin troppo attuali.
256 secondi, piovono bombe è un racconto grottesco fatto di spezzoni come quelli incendiari che distrussero Dresda, Tokio, Milano; un racconto fatto di frammenti come quelli dei resti di Hiroshima; un racconto fatto di schegge come quelle delle mine aeree che distrussero Londra, Amburgo; una narrazione poetica tratta dai brandelli della memoria dei protagonisti.
256 secondi era il tempo medio che impiegava un ordigno d’aereo della seconda guerra mondiale, dal momento dell'allarme alla deflagrazione. Sono stati per donne, anziani, bambini, uomini innocenti di ogni parte del mondo gli ultimi 256 secondi di vita.
Sono stati anche gli ultimi secondi di molti progetti, dei sogni, delle idee culturali, dei monumenti, delle opere d'arte e della storia. La follia umana arriva a distruggere in pochi secondi quello che il genio umano è riuscito a costruire in secoli.
...l'unico rifugio antiaereo efficace è la pace
Recensione 256 secondi, piovono bombe
Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo 256 secondi, Piovono bombe! Lo spettacolo è scritto e diretto da Cesare Gallarini. Queste “schegge” di bombardamenti sono raccontate da Cesare Gallarini, Lorena Marconi e Ottavio Bordone.
Con buona pace di Kubrick, qui decisamente si impara come odiare la bomba, la quale porta già in dote, nella parola che la denomina, l’onomatopeicità di un suono che ha ben poco di fumettistico, e troppo di tragico. Si racconta la storia di uno strumento di morte che ha, definitivamente, portato la guerra dai campi di marzo ai civili. A crollare non è più l’infestata casa degli Usher, bensì quella dell’uomo qualunque, dell’everyman che si vede, letteralmente, piovere dal cielo la tragedia; gli dèi si sono carrucolati nella scena umana troppo velocemente, pronti a scoppiare in faccia a qualunque platea. La bella intuizione di questo spettacolo è raccontare drammaturgicamente tutto questo, con una efficace e devastante normalità, avendo come bussola, per orientarsi in ogni bombardamento, quella banalità del male ben espressa dalla Arendt. Non ci sono gli eroi del mito, bensì persone comuni, che muoiono.
Perdono la vita a causa di questa pioggia futurista, metallica, dirompente, provocata dalla meteorologia distorta di generali, i quali sono ancora convinti, che, sopra la collina ci sia la notte crucca e assassina; ma gli unici, veri assassini sono loro. La verità di questa assurda etica rovesciata si basa su di una fredda media statistica: se un essere umano ucciso equivale a un omicidio, migliaia sono il risultato di una guerra. In una scena essenziale, gli oggetti sono correlativi oggettivi di questo spaventoso altro, segni tangibili di ciò che rimane; ogni accessorio serve a testimoniare che tutto questo è stato, è, e speriamo che non sarà più. Cesare Gallarini incarna il pilota, o, meglio, ogni possibile pilota che trasporta questo strumento di morte; con la sua fisicità imponente, la sua voce rustica, con tannini di una vocalità intensa, corposa come un buon bicchiere di lambrusco, dice l’indicibile.
Usa l’efficacissima arma di una sottile comicità straniata, brechtiana, per descrivere la quotidianità dei bombardamenti. Ma lì, proprio dietro l’ultimo fonema, a meno di un soffio dall’ultimo fiato, ecco che appare un’intenzione deviante: fa mostra di sé l’anima buona di qualunque Sezuan, che piange in silenzio, terzopersonalizzandosi epicamente. Lorena Marconi è la cittadina, la vittima, sguardo stupito verso un cielo che dovrebbe ospitare le nostre migliori intenzioni, e, invece, ospita creature mostruose che sputano fuoco sulla città, draghi postmoderni che difficilmente i cavalieri della contraerea potranno abbattere. E poi Lorena ha certi sorrisi, piccoli e delicati, che ti entrano dentro, scavando una strada di fuga dall’orrore. Si riesce a vedere, nella curva di quelle labbra, una tenue speranza; risuona sommessamente il canto di una Vera Lynn, a ricordarci che, forse, ci incontreremo di nuovo in un giorno di sole, dopo l’ultima guerra.
E poi c’è quello sguardo di madre, nel racconto del bombardamento sulla scuola di Gorla, con tutto lo spaesamento di un essere in grado di dimostrare che le bombe, oltre che le case, sradicano le anime. Con le bambole in mano, costringe ogni dio della tragedia all’unico silenzio possibile. Non ci son scuse, Dostoesvskij docet: ciò che rimane incomprensibile, ciò che suona come una fatale accusa per ogni possibile abitante del cielo, è la violenza contro i bambini. Ottavio Bordone è il giornalista raisonneur che batte ostinatamente sulla sua vecchia macchina da scrivere, come il reporter che si trova il proprio cantuccio lirico per portare la propria testimonianza, per regalare alla vicenda un particolare ritmo: quello delle dita sui tasti. E’ una presenza discreta che lega i fili di questa vicenda, uno alla volta, in grado di ricomporre, con dovizia, questa tela di Penelope, che proprio non sa se potrà re incontrare Ulisse.
Ogni parola di questo spettacolo è maledettamente necessaria; è uno schiaffo alla letargia dell’indignazione, alle coscienze impigrite, per cui il mondo delle immagini si contamina di realtà, finzione, e consigli per gli acquisti. La denuncia è questa testimonianza chiara, limpida come acqua di fonte. Non c’è fascinazione alcuna nella guerra, non c’è prosecuzione di alcuna diplomazia: solo l’orrore dell’ennesimo Kurtz, capace di raccontare il delirio dal cuore di tenebra di ogni guerra, trovando del metodo poloniano in questa follia. Mesdames e Messieurs, questo è autentico teatro civile di denominazione di origine controllata. Si racconta l’inferno dei bombardamenti senza sconti, senza orpelli, senza infiocchettature retoriche di alcun tipo. E, per citare una canzone di The Wall dei Pink Floyd, ci si meraviglia di come persone debbano, ancora oggi, correre ai rifugi, quando la promessa di un nuovo mondo è stata sbandierata mille volte sotto un cielo azzurro.
Il TEATRANTE – Danilo Caravà
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